Il calcio che educa: crescere figli attraverso lo sport
Tra campo, famiglia e valori: l’esperienza di un padre che vede nello sport una vera scuola di vita
Lo sport come fondamento educativo
Mi chiamo Fabio Dinapoli, sono sposato con Marta e papà di Mattia, di 9 anni, ed Eleonora, di 6.
Di professione sono consulente finanziario presso una nota banca. Sono un grande appassionato di sport, che ho praticato sin da bambino, anche a livello agonistico, in particolare il calcio.
Lo sport mi ha insegnato valori che vanno ben oltre il semplice gioco: il rispetto delle regole, dei compagni e degli avversari, la forza dell’amicizia e l’importanza dell’impegno per raggiungere gli obiettivi. Sono principi che hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia vita e che oggi cerco di trasmettere ai miei figli. Entrambi praticano sport e, in particolare, mio figlio Mattia gioca a calcio.

Il calcio come palestra di vita
Quando accompagno mio figlio al campo di calcio, non vedo solo un bambino che corre dietro a un pallone. Il calcio, per lui, non è solo un gioco: è una palestra di emozioni, di regole e di ruoli da rispettare.
È un modo per imparare che non si può sempre vincere, che bisogna saper controllare la rabbia e la delusione, e che ogni compito, anche quello meno visibile, è fondamentale. In campo Mattia impara di essere parte di un gruppo: non basta il talento individuale, servono collaborazione, ascolto e rispetto degli altri.

Il valore dei ruoli “invisibili”
Mio figlio gioca in difesa. È portato a proteggere la porta più che ad attaccare, ma spesso mi dice:
“Papà, chi fa gol è più apprezzato dai compagni… io faccio un lavoro sporco che nessuno vede, e i compagni non mi considerano.”
Questa sensazione lo intristisce e gli fa perdere di vista il gusto del divertimento, del gioco e dello stare insieme ai compagni di squadra. Io gli rispondo che nel calcio, come nella vita, non serve solo chi segna: serve anche chi impedisce agli avversari di segnare. Senza difesa non esiste attacco. E come spesso si dice: gli attacchi fanno vincere le partite e vendere i biglietti, ma le difese fanno vincere i campionati.

Pressioni, aspettative e crescita
Gli ricordo sempre che è bello prendersi delle soddisfazioni lungo il tragitto, ma che la gioia di arrivare alla meta deve essere la soddisfazione più grande, soprattutto se condivisa con gli altri.
Non mi considero un genitore che pressa il proprio figlio, proiettando su di lui ciò che magari io avrei voluto essere. Cerco di insegnargli che non si può diventare tutti campioni affermati. Tuttavia, mi rendo spesso conto che le mie parole stridono con ciò che vedo accadere intorno: anche se sono piccoli e giocano tra pari età, il problema spesso non è il campo, ma le pressioni esterne.
A volte sento gridare frasi come: “Non hai fatto bene la diagonale difensiva! Non hai coperto lo spazio! Non ti sei buttato in profondità!”

Educare al rispetto e alla perseveranza
Ci sono poi genitori convinti che i loro figli debbano diventare dei Cristiano Ronaldo o dei Lionel Messi. Così riversano su di loro aspettative che non aiutano a crescere, ma schiacciano. Io vorrei insegnare a mio figlio che nella vita ogni cosa va conquistata e sudata. I fenomeni sono pochi e, dietro ogni successo, c’è quasi sempre un lavoro duro, invisibile, fatto di sacrifici e perseveranza.
Mattia si abbatte quando non riesce come vorrebbe, quando pensa che sia colpa sua se non ha fermato l’attaccante avversario. Allora gli dico che l’importante è averci provato con tutto l’impegno possibile. Se l’avversario è stato più bravo, bisogna stringergli la mano e complimentarsi, ma dentro di sé deve nascere la voglia di migliorare e di non arrendersi.
Perché alla fine ciò che conta non è solo il risultato, ma come lo si è raggiunto: con impegno, perseveranza e caparbietà. Accompagnando mio figlio al calcio, non sto cercando di far crescere solo un piccolo difensore, ma un bambino oggi e un uomo domani, capace di affrontare la vita con coraggio, rispetto e determinazione.
E questo, per me, è il gol più bello.

